L’Agenzia giornalistica “Redattore Sociale” intervista il vicepresidente dell’ANFT

L’Associazione nazionale funzionari del trattamento rivendica la specificità della propria funzione e chiede la creazione di un ruolo tecnico. Santoro: “In Italia poco più di 800 e siamo ancora pochi”. I nodi critici della riforma

22 febbraio 2018 – 15:36

PALERMO – Creare le condizioni per accrescere l’umanizzazione della pena e l’inclusione sociale dei detenuti a partire dalla piena valorizzazione del ruolo dei funzionari giuridico-pedagogici, gli educatori del carcere. E’ quello che chiede l’Associazione Nazionale Funzionari del Trattamento, nata lo scorso 5 dicembre, di cui fanno parte per il momento 230 funzionari. A parlare delle proposte dell’associazione nazionale che, recentemente sono state depositate anche presso la commissione giustizia della Camera, è il vicepresidente Sergio Santoro, che presta servizio presso l’Area Educativa dal 2005.

In Italia siamo poco più di 800 e per il delicato ruolo che svolgiamo siamo ancora pochi – spiega Sergio Santoro -. Ci occupiamo in particolare della cura di tutto il percorso socio-educativo del detenuto analizzando tutti i suoi bisogni e valorizzandone le risorse. Per ogni ristretto prepariamo un progetto individuale finalizzato ad accompagnarlo in senso ampio e preparandolo adeguatamente anche a quello che sarà il dopo carcere. Coordiniamo inoltre il volontariato presente nelle case di reclusione e siamo il perno centrale delle attività di osservazione e trattamento dei reclusi”.

“L’obiettivo che ci proponiamo  – continua – è quello di rivendicare la specificità del nostro ruolo in termini di responsabilità sociale, compiti e rischio personale. Chiediamo, in particolare, di avere maggiori strumenti per migliorare ed interagire di più nel percorso educativo del detenuto. Il primo strumento è quello di attivare un processo di osmosi culturale e professionale tra i diversi operatori che lavorano in carcere e per un senso di comune appartenenza al fine del perseguimento della  mission principale che è la risocializzazione del detenuto. In pratica occorre una maggiore circolarità delle informazioni tra tutti gli operatori ognuno per le sue specificità nell’interesse esclusivo del detenuto”. “Il problema è che nell’attuale assetto organizzativo c’è, invece, una separazione tra il personale della polizia penitenziaria e gli impiegati civili dello Stato. Chiediamo pertanto la creazione di un ruolo tecnico di cui faremo parte anche noi all’interno del corpo di polizia penitenziaria, una cosa che avrebbe soprattutto ricadute positive sul percorso di accompagnamento del detenuto. Finora purtroppo non si è maturato tra tutti gli operatori l’obiettivo comune che dovrebbe essere l’inclusione sociale del detenuto rispetto a chi tende ad improntare invece le azioni più in chiave di sicurezza”.

“Nel percorso di risocializzazione sono molto importanti anche i momenti di apprendimento informale – aggiunge ancora Sergio Santoro – che sono rilevanti allo stesso modo dei momenti di apprendimento più strutturati (corsi scolastici, professionali ecc). In questa senso vorremmo trasferire le nostre modalità di approccio relazionale anche agli altri operatori. Entrare in un ruolo tecnico significherebbe quindi per noi avere all’interno del corpo di polizia penitenziaria un ruolo diverso sganciato dall’ordine gerarchico generale che ci darebbe una maggiore autonomia professionale. Ne conseguirebbero così azioni maggiormente sinergiche finalizzate a una decisa accelerazione del processo di umanizzazione della pena e alla risocializzazione delle persone che hanno violato il patto sociale”.

Inoltre, in merito alla riforma dell’ordinamento penitenziario l’associazione nel suo documento lamenta soprattutto il fatto “che la riforma venga fatta senza tenere conto adeguatamente delle osservazioni degli addetti ai lavori, degli operatori chiamati al difficile compito della rieducazione dei soggetti che hanno violato il patto sociale. Convinti che l’ordinamento penitenziario attuale – riporta il documento – rappresenti uno straordinario strumento normativo, peraltro mutuato da diversi sistemi penitenziari di altri Stati, i funzionari giuridico-pedagogici ritengono che, per la sua piena applicazione, occorrano invece, oltre all’impiego di maggiori risorse nel sistema penitenziario, interventi che incidono sull’assetto organizzativo del personale penitenziario, eliminando l’attuale dicotomia tra operatori di polizia penitenziaria e funzionari giuridico-pedagogici”. “Oggi si assiste di frequente, nell’esecuzione penale intramuraria – scrive inoltre l’associazione – a dispute tra istanze di risocializzazione ed istanze securitarie che parrebbero sintomatiche del mancato perseguimento, da parte di tutti gli operatori penitenziari, di un’unica mission istituzionale, e cioè la restituzione alla società libera di soggetti più capaci di rispettare il patto sociale. Pertanto lo status che la nostra associazione ritiene funzionale allo scopo è quello che discende dall’appartenenza dei funzionari giuridico-pedagogici ad un ruolo tecnico del corpo di polizia penitenziaria con un trattamento giuridico ed economico analogo a quello riservato agli attuali funzionari di polizia”. (Serena Termini)

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